Quello descritto dai Tiratirache è un
paesaggio morale che ricopia fedelmente la geografia di un
Nordest avvilito dalle troppe automobili, dai troppi capannoni,
dalle troppe luci e dai troppi troppo. Un paesaggio surreale,
dove risaltano non più le ville della riviera della Brenta,
perché i fiumi in lingua veneta sono femmine, ma quelle in fila
ininterrotta a murare le strade dei piccoli imprenditori,
aggrappate al capannone come alla mamma.
Ville in genere brutte,
progetti da geometri a buon mercato, abitate poi da nanetti,
aquile alpine, Veneri in similmarmo ed improbabili marzocchi, i
leoni araldici senza più le ali di San Marco e nemen le bale.
Scelte di un’umanità vera e provinciale che sogna
televisivamente di velinemutandine e suvastronavici e
schei
che poi andranno ad annegare a Sharm-el-Sheik.
Un’ironia
dolente, amara più che indignata, e che comunque ha ancora in
riserva una simpatia inevitabile per quei personaggi che pur
tuttavia e nonostante là dentro ci devono vivere.
Ecco allora
che prende forma una sorta di controcanto fatto di un’umanità
tanto arcaica nella tipologia ed improbabile nelle aspirazioni
quanto ancora e sempre contemporanea: l’alcolizzato del tappo
corona, la signora di campagna che prende la corriera per andare
in città, il prete che, dicono, se la faccia con la suora (se
almeno!), quell’altro che non riesce ad imbastire due parole
d’amore che siano due o il tipo che ancora ritiene che la grappa
fatta in casa sia migliore di quella dei professionisti (per
l’amor di Dio!).
Un Teatro nel quale
tutti si può in qualche modo recitare per vedere, forse è
ancora possibile, se riusciamo non si chiede a farci ridere, ma
almeno a farci sorridere.
Cesare Poppi |
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